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“Nel labirinto delle metamorfosi: Leonor Fini e le sue creature oniriche”

Sabato pomeriggio attraversavo il cortile di Palazzo Reale con il cuore che batteva più forte del solito. Non sapevo ancora che stavo per entrare in un mondo dove i confini tra sogno e realtà si dissolvono come acquerello sulla carta bagnata, dove le donne si trasformano in sfingi e gli uomini si perdono in labirinti di identità fluide.

La mostra su Leonor Fini mi aspettava e già dal primo passo nelle sale espositive ho capito di trovarmi di fronte a qualcosa di diverso. Non una semplice retrospettiva, ma un viaggio nell’immaginario di una donna che ha attraversato il Novecento come una meteora luminosa, lasciando dietro di sé una scia di opere che ancora oggi turbano e affascinano. Ogni momento della sua vita viene scandito da un colore.

L’incontro con l’enigma

La prima opera che mi ha catturata è stata un autoritratto del 1938: Leonor mi guardava dalla tela con quegli occhi penetranti che sembravano conoscere segreti che io non avevo ancora imparato. Era vestita di nero, i capelli scuri raccolti in una massa che incorniciava il viso come una corona regale. In quel momento ho capito perché questa donna, nata a Buenos Aires nel 1907 da madre italiana e padre argentino, è riuscita a sedurre intellettuali come Max Ernst e Paul Éluard senza mai piegarsi alle loro regole.

Camminando tra le nove sezioni tematiche, ho ripercorso la sua storia: la bambina cresciuta a Trieste nell’ambiente colto frequentato da Joyce e Svevo, la giovane ribelle che a diciassette anni abbandona la casa materna per viaggiare e studiare, la donna che nel 1933 approda a Parigi e diventa protagonista della scena artistica senza mai aderire completamente al Surrealismo.

Tra sfingi e metamorfosi

Le creature di Leonor Fini popolano le sale come presenze vive. Le sue sfingi non sono mostri mitologici ma donne-gatto che dominano scenari onirici, figure femminili che incarnano una forza primordiale e indomita. Ho sostato a lungo davanti a “La Sfinge Bianca”, dove una creatura dai tratti felini e femminili si staglia contro un paesaggio desertico che potrebbe essere sia antico che futuristico.

I suoi uomini, invece, appaiono fragili, spesso androgini, avvolti in vesti che ne confondono l’identità. È come se Fini avesse ribaltato i ruoli tradizionali: nelle sue tele sono le donne a detenere il potere, mentre gli uomini si perdono in metamorfosi che mettono in discussione ogni certezza sulla mascolinità.

Il linguaggio dell’inconscio

Quello che mi ha colpito di più è stata la capacità di Fini di tradurre in immagini le teorie freudiane sull’inconscio. Le sue opere degli anni Trenta e Quaranta sono popolate da simboli che emergono dai recessi della psiche: oggetti enigmatici, architetture impossibili, paesaggi che sembrano generati dai sogni.

Non c’è nulla di casuale nella sua pittura. Ogni elemento è carico di significato, ogni colore è scelto per evocare emozioni precise. I rossi accesi delle sue composizioni bruciano come passioni represse, mentre i blu profondi aprono abissi di malinconia. Ho scoperto che utilizzava la tecnica dell’automatismo surrealista, ma la piegava ai suoi scopi, creando un linguaggio personale che non doveva nulla a nessun movimento artistico.

Una vita da romanzo

Percorrendo la mostra, ho ricostruito i frammenti di una vita straordinaria. Durante la Seconda Guerra Mondiale, rifugiata a Montecarlo, Fini dipinge ritratti per sopravvivere, ma anche in quei momenti difficili la sua arte non perde mai la carica visionaria. Dal 1945 al 1969 si dedica ai costumi per teatro, opera, balletto e cinema, portando il suo immaginario fantastico anche nelle arti dello spettacolo.

Leonor Fini contribuì alla creazione di importanti produzioni teatrali. Realizzò scene e costumi per il Teatro alla Scala, tra cui quelli per “Il ratto dal serraglio” di Mozart, con Maria Callas e il costume di Norina per Il Credulo, di Domenico Cimarosa: quest’ultimo è in mostra a Milano, assieme a numerosi bozzetti e figurini, grazie al prestito dell’Archivio Storico Artistico del Teatro alla Scala di Milano.

I gatti che la circondavano nella vita quotidiana diventano protagonisti delle sue opere maggiori, insieme alle sfingi che sembrano essere il suo alter ego artistico. Era una donna che viveva circondata da felini, in appartamenti parigini che dovevano sembrare antri magici, e questa passione si riflette in ogni sua creazione.

Il coraggio di essere se stessa

Quello che più mi ha impressionata di Leonor Fini è stata la sua capacità di rimanere fedele a se stessa in un’epoca in cui le donne artiste dovevano spesso scegliere tra l’essere prese sul serio e l’essere accettate. Lei ha fatto entrambe le cose, creando un’arte che parlava di temi scottanti come l’identità di genere, i ruoli familiari, la sessualità, senza mai scendere a compromessi.

Le sue opere anticipano questioni che oggi consideriamo contemporanee: la fluidità dell’identità, la critica ai modelli tradizionali di mascolinità e femminilità, il diritto delle donne di essere forti e dominanti. Guardando i suoi dipinti, ho sentito una connessione profonda con una sensibilità che attraversa i decenni e arriva fino a noi intatta.

Un’eredità visionaria

Uscendo da Palazzo Reale, mentre il tramonto tingeva di rosa i palazzi milanesi, ho capito perché questa mostra arriva proprio ora, a quasi cento anni dalla prima esposizione di Fini a Milano nel 1929. La sua arte parla a una generazione che sta ridefinendo i concetti di identità e genere, che cerca nuovi modelli di forza femminile, che non ha paura di esplorare gli abissi dell’inconscio.

Leonor Fini è morta a Parigi nel 1996, ma le sue sfingi continuano a vivere, a interrogarci, a sfidarci. Nelle sale di Palazzo Reale ho incontrato non solo un’artista straordinaria, ma una profetessa che ha saputo vedere nel futuro e dipingere i nostri sogni prima ancora che li sognassimo.

Questa mostra non è solo un omaggio a una grande artista del passato, ma un invito a riconoscere in noi stessi quella stessa forza ribelle e visionaria che ha animato la sua arte. Perché in fondo, tutti noi portiamo dentro una sfinge che aspetta solo di essere liberata.

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