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Jago Museum – Se fai, sai fare

Il tempo a disposizione è sempre troppo poco, soprattutto per chi come me sente il costante bisogno di nutrire il proprio cervello e forse non solo quello. Spesso mi dicono che è come se avessi vissuto più vite, è così, ma solo perché ho deciso consapevolmente di viverle quelle vite.

Le definizioni non mi piacciono, perché restringono di gran lunga l’orizzonte. Diciamo che al mio nome spesso si associa la parola creatività, ma non è stato sempre così. C’è stato un momento in cui tutto quello che aveva a che fare con quel mondo mi era indifferente. Per non dire che mi dava fastidio. Sembra impossibile eppure è così. Non mi soffermo sulle motivazioni ma mi soffermo sulle sensazioni. Questo blog che curo ormai dal 2009 è una prova tangibile del fatto che la creatività l’ho comunque sempre indagata e cercata nonostante il lungo distacco. Cerco soprattutto quello che spinge a creare, ne scandaglio il processo fino a trovare la famosa scintilla. Non sempre ci riesco ovviamente.

Come al solito le occasioni è meglio crearle che aspettarle. Così sono arrivata in un luogo non luogo. Poi capirete perché lo chiamo così. Il Museo di Jago a Napoli. Era da molto tempo che volevo andarci e il mio tempo è sempre centellinato e quindi si può dire che abbia percorso tra andata e riorno 1400 km in un giorno pur di vederlo. E li rifarei quei 1400 km.

Scesa alla fermata Cavour della Metro 2, dopo 5 minuti sono arrivata al Museo di Jago. Il museo si trova all’interno della Chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi. L’apertura al pubblico dell’atelier di Jago è stato un momento dal forte valore simbolico, è il passaggio da spazio intimo di creazione, nato durante il lockdown, a luogo di cultura accessibile a tutti.

Non mi ero accorta di essere arrivata a destinazione, vicino al Museo c’è un fioraio….ho chiesto indicazioni e quell’uomo con in mano un girasole, mi ha sorriso e mi ha detto…..si giri, eccola! Non è scontato quel sorriso, perché rappresenta appieno l’animo di un popolo che il sole lo porta dentro.

Dietro i luoghi e i loro contenuti c’è sempre l’umanità di chi ha immaginato, quella di chi ha costruito, l’umanità di chi ha abitato e abbandonato, l’umanità di chi ha recuperato e quella di chi verrà.

Jago

Uno dei più grandi lussi che ti possa capitare nella vita è visitare un luogo come questo completamente da sola.

La prima cosa che mi ha colpito è stata la luce che filtra dalle grandi finestre, le pareti immacolate della Chiesa, che però se osservate con attenzione e colpite dalla luce assumono molte sfumature. Poi c’è un suono che sordo e costante ha scandito la mia visita. Il battito di un cuore. Il suono proviene da una delle opere esposte. Apparato circolatorio, trenta fotogrammi di un battito cardiaco che solo messi uno dietro l’altro, riescono a far pulsare un cuore di ceramica.

La Chiesa si trova all’interno di un rione molto vivo ed è assurdo come un attimo prima si sentano distintamente i suoni provenire dall’esterno, il vociare dei bambini che giocano, i clacson delle auto…e poi d’un tratto non si senta più nulla. Si è talmente rapiti da quello che si osserva che sembra di trovarsi in un altro luogo e non in una città brulicante di vita come Napoli.

Non aspettatevi di vedere molte foto in questo post. ho deciso di concentrarmi sulle mani. Una delle opere esposte (Ego Laurentius) rappresenta il braccio di Jago. Secondo l’artista le sue mani sono lo strumento della sua conoscenza, l’espressione massima dell’essere e del fare. Se ci pensate le mani sono una delle prime parti con cui entriamo in contatto nel momento in cui conosciamo per la prima volta una persona. Attraverso le mani sin da piccoli esploriamo il mondo.

Per chi lavora con la creatività, l’opera non rappresenta il fine ultimo…..ma il percorso, le ore trascorse a lavorare su quel progetto. Non mi ha stupito quindi ascoltare le parole dell’artista che ribadiva proprio questo concetto durante un’intervista.

Osservando le opere esposte sono sempre le mani a fare da filo conduttore. Mani che sostengono, mani che afferrano, mani che coprono, mani che allontanano, mani che lottano, che proteggono che confortano…….come se quelle mani in realtà non fossero altro che espressione delle infinite sfumature dell’animo umano. Nel bene e nel male.

Se vi mettete alle spalle delle opere che si trovano nella zona dell’altare sembra che esse siano collegate da un filo invisibile che parte proprio dalle mani. Mani candide e giovani, mani rugose e fragili, mani possenti…..

Mi hanno informata che ad un certo orario sarebbe cominciata una visita guidata. Per come sono fatta evito le visite guidate perché ho bisogno di restare da sola con le mie emozioni e con le mie sensazioni quando ammiro un’opera. Il gioco è farsi mille domande e provare a “sentire” l’artista attraverso le sue opere. Ho fatto 1400 km in un giorno perché mi interessa il percorso di Jago e lo vedi chiaramente il suo percorso. Interesse metodico per il “materiale umano”. Metodico perché la sua ricerca parte dall’osservazione e dall’ascolto. Questo richiede tempo e molta costanza. Per fare quello che vuoi occorre prima conoscere la filiera e la filiera parte dalla materia prima. Ci sono alcune opere di Jago che sono realizzate con pietre di fiume, non per poetica ma per necessità. Il marmo costa. La sua evoluzione è costante negli anni e passa anche attraverso i social che non sono visti come il “male” ma come mezzo estremamente potente.

Se c’è una cosa che ho capito mentre passeggiavo nel Museo è che le parole di Munari sono la sintesi perfetta di ogni opera custodita al suo interno. Se fai, sai fare. Fare vuol dire sudore, fare vuol dire dolore, fare vuol dire perdersi, ritrovarsi e forse capirsi. Per poter comunicare agli altri è indispensabile prima sperimentare se stessi, attraverso mille esperienze, mille contesti. Anche attraverso i propri fallimenti.

Mettersi in gioco è fondamentale. Pochi sanno che Jago, seppur per un breve periodo della sua vita, è stato un modello, di quelli che posano nudi per farsi ritrarre. Per necessità? Molto probabilmente ma facendolo è diventato oggetto. Lui che ora è esattamente dalla parte opposta.

C’è una frase che mi ha colpito e che è riportata sul totem posto all’ingresso del Museo:

“Per scolpire qualcosa bisogna prima romperla”.

Forse bisogna anche rompere se stessi e i propri schemi per creare. Anche la Chiesa che ospita il Museo sembra “rompersi”, infatti se alzate lo sguardo noterete delle reti e sopra dei calcinacci. Il progetto di restauro del luogo è in continua evoluzione e aperto alla generosità dei suoi visitatori.

Notoriamente chi propone novità non viene ben visto o capito…..perché uno dei grandi meriti degli artisti è anticipare il futuro. Questo Museo ne è un’esempio. Un quartiere forse dimenticato è entrato a far parte di un nuovo circuito turistico e artistico. Io non sono solo andata a vedere il Museo di Jago, ma ho vissuto il quartiere. Mi sono persa nel vicolo dei musicisti e ho mangiato una pizza al trancio buonissima assistendo all’esibizione di un trombettista. Ho condiviso una parte del tragitto di ritorno chiacchierando con una avvocatessa che mi raccontato che sua figlia era una scrittrice e che con fatica stava provando a vivere del suo mestiere. Ho sorseggiato un caffè mentre ascoltavo un poeta napoletano decantare la “Livella” di Totò. Ho acquistato delle sfogliatelle (rigorosamente ricce) da portare alla mia famiglia.

Andate a visitarlo, ne vale assolutamente la pena. pochi sanno che Jago non vende le sue opere, o meglio vende delle quote ma ne resta sempre proprietario. Perché? Perché cerca partner e non compratori. Un partner è disposto ad investire e creare con te. Non ho il budget per poter anche solo pensare di acquistare una di quelle quote, ma a modo mio ho sostenuto il suo fare.

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